La vitamina D è una sostanza essenziale naturalmente prodotta dall’organismo esposto alla tradizione solare, spesso in modo non sufficiente a causa di cattivi stili di vita ed una errata alimentazione; la carenza di questa vitamina comporta l’alterazione dei livelli dell’elemento calcio, fondamentale per la buona salute delle ossa e la prevenzione di malattie come l’osteoporosi o il rachitismo.
Il livello di vitamina D viene determinato attraverso dosaggio della sostanza nel sangue, e può variare a seconda delle interpretazioni delle diverse società scientifiche. I valori ad oggi comunemente accettati dalla comunità medica prevedono una vera e propria carenza al di sotto dei 10 ng/mL, uno stato d’insufficienza tra 10 e 30 ng/mL, una quantità sufficiente di vitamina D a concentrazioni tra 30 e 100 ng/mL e livelli di vitamina che possono provocare tossicità al di sopra di 100 ng/mL. Tali valori sono però stati recentemente posti sotto la lente d’osservazione da parte dell’Associazione Medici Endocrinologi (Ame), che ha pubblicato un consensus statement su Nutrients.
Rivedere il limite superiore dell’insufficienza
Secondo gli specialisti, infatti, il valore di 30 ng/mL previsto per la soglia superiore d’insufficienza sarebbe troppo elevato, e farebbe sì che molti soggetti dichiarati “carenti di vitamina D” probabilmente non siano tali. Un limite più corretto, secondo quanto riportato dal consensus paper, dovrebbe dichiarare l’insufficienza di vitamina D al di sotto dei 20 ng/mL. “Sembra apparentemente una banalità tale differenza, ma una buona parte dei soggetti dichiarati “carenti di Vitamina D cadono proprio in questa forbice che va tra i 20 ed i 30 ng/dl comportando così, come poi effettivamente si sta verificando, una incongrua prescrizione di tale molecola – ha sottolineato Roberto Cesareo, endocrinologo dell’Ospedale S.M. Goretti di Latina e primo firmatario del lavoro – Al contrario, per soggetti osteoporotici o pazienti che assumono già farmaci per la cura dell’osteoporosi, o altre categorie di soggetti significativamente più a rischio di carenza di vitamina D, è corretto, a nostro giudizio, che abbiano valori di vitamina D superiore al limite di 30 ng/dl e quindi vanno trattati”.
Una sostanza che richiede attenzione
La linea guida sviluppata dagli esperti dell’Ame si basa sulla revisione dei dati di letteratura secondo il metodo della evidence based medicine, e intende porsi come punto di riferimento per la comunità scientifica , spesso alle prese con il problema di un’eventuale supplementazione dei pazienti con vitamina D.
Una condizione piuttosto frequente anche in Italia, nonostante sia paese del Sole (che favorisce la produzione endogena della vitamina). “Come endocrinologi sentivamo l’esigenza di trovare risposta a domande quali: la vitamina D è realmente una panacea? Protegge dal diabete e dal cancro? I medici devono focalizzare in maniera importante la loro attenzione sui livelli circolanti in tutta la popolazione? I preparati di vitamina D sono tutti uguali? Il medico può scegliere qualsiasi preparato di vitamina D e somministrarlo in maniera equivalente?”, ha spiegato Cesareo nel presentare la linea guida.
Nonostante le molte evidenze sulla relazione tra la carenza di vitamina D e malattie quali il diabete mellito, alcune sindromi neurologiche o alcuni tipi di tumori (oltre che l’osteoporosi e l’osteomalacia), non è ancora chiaro quali siano i dosaggi corretti della sostanza realmente utili per ridurre l’incidenza di queste patologie correlate. “Riteniamo che sia giusto riportare questo dato in quanto far passare il messaggio che la vitamina D sia l’elisir di lunga vita, oltre che scorretto in quanto privo di evidenze scientifiche forti, rischia di essere oggetto di iper-prescrizione incongrua e con il rischio di assumere tale molecola senza reali benefici”, ha aggiunto Roberto Cesareo.
L’importanza del sole e degli stili di vita
A monte di qualsiasi intervento farmacologico, non va mai dimenticata l’importanza di seguire uno stile di vita corretto, fondamentale anche per prevenire l’ipovitaminosi D: in questo caso, è infatti necessaria un’adeguata esposizione alla luce del sole, associata a una dieta bilanciata. “Va sottolineato, però, che con l’invecchiamento l’efficienza dei meccanismi biosintetici cutanei tende a ridursi, e perciò è più difficile per le persone anziane produrre adeguate quantità di vitamina D con l’esposizione alla luce solare” ha sottolineato Fabio Vescini, dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Santa Maria della Misericordia, Udine.
È importante considerare il trattamento terapeutico con vitamina D, in modo particolare, nei pazienti con osteomalacia o osteoporosi, negli anziani (soprattutto quelli più esposti alle cadute) e nei soggetti che non possono esporsi in maniera adeguata alla luce solare. Secondo Vescini, una valida alternativa alla supplementazione potrebbe puntare alla “fortificazione” dei cibi con vitamina D; questo approccio è tipico dei paesi scandinavi, dove la radiazione solare è naturalmente meno ricca di raggi UVB. Ma ciò è vero anche in Italia, soprattutto nei mesi invernali quando la radiazione UVB non è sufficiente a produrre vitamina D nella cute. “Paradossalmente – aggiunge Vescini – ciò si può verificare anche in estate, in quanto l’opportuna applicazione di creme con filtri solari riduce la penetrazione dei raggi solari nella cute e, conseguentemente, la biosintesi di vitamina D”.
I valori plasmatici della vitamina seguono un ciclo stagionale, con valori massimi in autunno e minimi nella primavera inoltrata. Secondo gli esperti di Ame, non esiste quindi un periodo migliore per eseguire il dosaggio della vitamina D plasmatica, ma tendenzialmente è logico attendersi che a un valore basso in autunno possa far seguito una severa ipovitaminosi in primavera.
Più forme, non equivalenti tra loro
La forma di vitamina D di più comune utilizzo è il colecalciferolo, ovvero la forma inattiva della vitamina che viene attivata dapprima nel fegato e quindi nei reni e, come tale, espleta i effetti finalizzati soprattutto al corretto assorbimento di calcio a livello intestinale e al controllo del metabolismo fosfo-calcico nelle ossa. Altre forme di vitamina D in commercio sono parzialmente o del tutto attive; tra di esse, Roberto Cesareo ha ricordato il calcifediolo, sostanza meno liposolubile che non necessita di attivazione a livello del fegato.
Se prescritte in modo appropriato e a dosi corrette, sia il colecalciferolo che il calcifediolo non presentano particolari problemi di concentrazione del calcio nel sangue e nelle urine. Il calcifediolo, indicano gli esperti di Ame, è indicato nei pazienti che hanno patologie epatiche di un certo rilievo e nei soggetti obesi carenti di vitamina D, oltre che in persone affette da malassorbimento intestinale.
“Infine, i metaboliti del tutto attivi – che non necessitano di attivazione epatica o renale – trovano un campo di utilizzo molto più limitato, in particolare nei soggetti affetti da insufficienza renale o che sono carenti dell’ormone paratiroideo, quadro clinico che solitamente si riscontra nel soggetto operato di tiroide e di paratiroidi”, spiega ancora Roberto Cesareo. I metabolici attivi sono meno indicati nelle persone con semplice carenza di Vitamina D, a causa di un maggior rischio di ipercalcemia e di aumentati livelli di calcio nelle urine”.